venerdì, novembre 18, 2005

Guerra

ARMISTIZIO DEL 8 SETTEMBRE 1943


Sbarco Alleato in SiciliaIl 10 luglio 1943 gli anglo-americani (gli Alleati) sbarcano in Sicilia. E’ subito chiaro che la guerra è persa.
Per evitare inutili carneficine, Mussolini viene pressato dagli alti comandi militari italiani a chiedere un armistizio, ma lui non riesce a farlo. E’ una cosa più forte di lui. E’ soggiogato da Hitler.
L’armistizio viene fatto in due tappe, essendo necessario, prima di poter avviare trattative con gli Alleati, toglier di mezzo Mussolini.

Caduta del governo MussoliniIl 25 luglio, il Rè Vittorio Emanuele III toglie la carica di Primo Ministro a Mussolini e lo sostituisce con il Maresciallo Badoglio, con l’intenzione non dichiarata ma evidente di arrivare ad un armistizio.
L’armistizio viene raggiunto solamente l’8 settembre 1943, quarantatre giorni dopo.
In questo periodo, Badoglio ed il Rè, riassicurano in continuazione i tedeschi che continueremo la guerra al loro fianco.
I tedeschi dal canto loro, avendo intuito le intenzioni del governo italiano, durante i 43 giorni di intervallo trasferiscono in Italia grandi quantità di soldati e armamenti, al duplice scopo di frenare gli Alleati e di trovarsi pronti a continuare la guerra da soli.

Annuncio dell’armistizio
La cosa viene gestita in modo disastroso. L’annuncio dell’armistizio viene comunicato agli italiani la sera dell’8 settembre per radio da Badoglio, e termina in modo ambiguo:
…ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare … ma (le forze italiane) reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza (i tedeschi)….

Per sfuggire ai tedeschi, il mattino successivo il Rè, Badoglio e tutti i Generali dello Stato Maggiore delle Forze Armate abbandonano Roma e si trasferiscono a Brindisi, senza costituire alcun altro centro di comando.
Nascerà così a Brindisi il “Regno del Sud”.

In quel momento ci sono circa due milioni di italiani in armi, metà in Italia l’altra metà fuori (Grecia, Albania, Jugoslavia).

Gestione dell’armistizio
Il bollettino letto alla radio è l’unica informazione per tutti, militari e borghesi, soldati semplici e Generali. I comandi di tutte le unità, sparsi nel territorio, non preavvisati non sanno come comportarsi. Quando chiamano il Quartier Generale a Roma nessuno risponde. Tutti i Generali dello Stato Maggiore sono scappati.
I Comandi dislocati in Italia si consultano tra loro e adottano un’unica linea di condotta, vale a dire: mandare tutti a casa, in abiti borghesi per sfuggire ai tedeschi, che a loro volta tentano di rastrellarli per trasferirli nei campi di concentramento in Germania.

Alcuni dei Comandi all’estero, lasciati soli, a capo di decine di migliaia di uomini, prendono tragiche cantonate; si mettono a fare le guerra contro i tedeschi.
Il caso più clamoroso nell’isola di Cefalonia in Grecia che si conclude con una strage.
E’ il momento più basso nella storia dall’unità d’Italia, cioè dal 1860.

Creazione della Repubblica Sociale Italiana (RSI) di MussoliniIl 12 settembre i tedeschi vanno a liberare Mussolini, custodito dai carabinieri sul Gran Sasso (a Campo Imperatore), e lo portano a Berlino da Hitler. Il 18 settembre, quindi 10 giorni dopo l’armistizio, Mussolini dalla radio annunucia agli italiani la nascita della Repubblica Sociale Italiana (RSI), cioè il Governo della parte d’Italia non ancora occupata dagli Alleati. In quel momento il fronte è ancora in Calabria.

Dichiarazione di guerra alla Germania
Nell’Italia meridionale al di la del fronte, il Governo del Regno del Sud (Rè e Badoglio) nel frattempo dichiara guerra alla Germania (13 ottobre).
Questa è la ciliegina sulla torta che stravolge completamente il significato dell’armistizio e lo fa diventare, davanti al mondo, un voltafaccia dell’Italia.

Responsabilità
E’ chiaro che il principale autore di questo disastro è stato Mussolini, due volte colpevole. Prima colpa l’entrata in guerra, seconda colpa il non avere fatto lui l’armistizio, come sarebbe stato suo dovere..
L’avrebbe potuto gestire in ben altre condizioni, portando preventivamente forze al Brennero per bloccare i tedeschi. Aveva ancora in casa uomini e mezzi per farlo.
Avrebbe evitato la spaccatura dell’Italia in due, con tutte le sue conseguenze.
Anche il Rè avrebbe potuto fare altrettanto, ma solo realizzando simultaneamente la sostituzione di Mussolini e l’armistizio. In questo caso la resa avrebbe dovuto essere senza condizioni. Le lungaggini di un armistizio concordato sarebbero state in conflitto con la fulmineità richiesta nei confronti della Germania.
Qualcuno potrebbe obiettare: Mussolini doveva almeno evitare di costituire la RSI, cioè il governo fascista del nord (ovviamente al prezzo di farsi fucilare da Hitler).
Rispondo: per gli italiani sarebbe stato peggio. Si sarebbero trovati a vivere in un territorio semplicemente occupato dai tedeschi, inviperiti per il voltafaccia dell’Italia, senza un governo italiano amico.



DESTINO DEI SOLDATI ITALIANI DOPO L’8 SETTEMBRE

L’immagine degli italiani in divisa all’indomani dell’8 settembre 1943 può essere concepita come quella di un formicaio impazzito.
Un quadro preciso di quanto accaduto è difficile da fare. Esistono solo alcune cifre complessive che possono dare un’idea approssimativa.

Uomini in campo
Due milioni di italiani erano in divisa l’8 settembre, metà all’estero e metà in Italia, distribuiti tra nord e sud.
In quel momento il pensiero prevalente nella mente dei soldati era quello di mettersi in disparte, evitare di rischiare inutilmente la vita in una guerra ormai persa.
Moltissimi ex-combattenti, nel nord Italia, si erano nell’immediato nascosti, sia in città che sulle montagne, prevedendo una fine molto vicina della guerra. Una questione di settimane, che è poi diventata di 20 mesi.
Arrivati all’inverno 1943-1944, inverno freddissimo, molti, attratti anche da una amnistia, si sono consegnati ai tedeschi

Nuove destinazioni
Alla fine del 1943 c’erano in tutta l’italia del nord solamente quattromila partigiani, inquadrati nei ranghi del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). C’era però sicuramente in aggiunta un numero imprecisato di uomini nascosti, anonimi, intenzionati a non partecipare ad alcuna lotta armata.
Verso la fine del 1943 erano 600.000 gli italiani prigionieri nei campi di concentramento in Germania. A questi è stato offerta l’alternativa di arruolarsi nelle Divisioni della Repubblica Sociale Italiana (RSI) che il governo Mussolini andava formando, oppure di rimanere nello stato di prigionieri di guerra.
La maggioranza ha optato per quest’ultima scelta.
Altre classi di giovani sono state chiamate alle armi nel territorio della RSI. Questi hanno continuato a separarsi in tre filoni: quelli che rispondevano alla chiamata (la maggioranza), quelli che si nascondevano e quelli che si associavano ai partigiani.

Riassunto
A guerra conclusa le cifre ufficiali parlano di quasi duecentomila uomini ai quali è stato ufficialmente riconosciuto il ruolo di “partigiano”.
Una cifra equivalente sul versante opposto è quella degli ex-combattenti nelle quattro Divisioni della RSI, e nei corpi di volontari.
Gli italiani che hanno combattuto per il Regno del Sud a fianco degli Alleati nal “Corpo Italiano di Liberazione” sono arrivati ad essere circa 50 mila nei primi mesi del 1945, cioè alla vigilia della fine.
Sintetizzando in modo molto approssimativo, si può affermare che al nord il 20% degli italiani in età militare ha accettato di continuare a combattere, una metà nelle file dei partigiani e l’altra metà per la RSI. Al sud un due o tre per cento ha affiancato gli Alleati.


MOTIVAZIONI A COMBATTERE OPPURE NO

Situazione politica
L’Italia alla fine del 1943 era divisa in due parti, entrambe amministrate da governi-fantoccio capeggiati dai due personaggi che avevano governato l’Italia nell’ultimo ventennio: il Re al sud, sotto l’egida degli anglo-americani, ed il Duce al nord sotto i tedeschi. Alla vigilia della guerra questi due personaggi godevano di una altissima popolarità in Italia. Nell’immaginario collettivo erano le autorità, uniche, indiscutibili e insostituibili.
Per me e molti miei coetanei i punti di riferimento erano papà, mamma, il Rè e il Duce. Nel 1943, a seguito delle sconfitte militari, questa popolarità era svanita

Il sentimento della gente in quel momento era soprattutto rivolto alla fine della guerra.
Il tema delle discussioni politiche non era incentrato sul tema democrazia o dittatura, concetti astrusi, quasi sconosciuti allora, bensì se fosse meglio stare con la Germania, con la Russia o con l’America.
La parola “democrazia” io (12 anni di età) l’ho sentita pronunciare dopo il 25 aprile del 1945. Molta gente confondeva il termine “democrazia” con il nome del partito Democrazia Cristiana.

Gettare le armi
Qual’era lo spirito dell’armistizio chiesto dall’Italia agli alleati ?
Risposta: l’Italia non ce la fa più. Quindi getta le armi
Secondo mè, coerentemente con questo concetto, gli italiani dovevano gettare le armi. Dovevano semplicemente smettere di combattere.
Se aggiungiamo che le sorti del conflitto erano segnate e l’Italia era destinata ad essere “liberata” dagli Alleati, (ed è stata liberata dagli Alleati) dobbiamo concludere che non aveva più alcun senso combattere, sia per l’una che per l’altra parte.

I volontari
Invece una parte di italiani, sia pure minoritaria, ha voluto continuare a combattere, dall’una e dall’altra parte belligerante:
Il “merito” che io riconosco a tutti costoro è quello di aver aumentato inutilmente il numero degli italiani morti in guerra.

I fascisti (stò parlando dei volontari) combattevano per l’ideale dell’onore militare, molto sentito in tutti gli Stati europei fino alla seconda guerra mondiale.
Combattevano per fermare gli anglo-americani. Combattevano con la consapevolezza che avrebbero perso la guerra. Sui campi di battaglia hanno perso 30.000 uomini.

I partigiani, al 90% comunisti, ovviamente tutti volontari, combattevano per l’ideale comunista. Loro pensavano di iniziare la trasformazione dell’Italia in Stato comunista. La loro era una tecnica di guerriglia, fatta di imboscate, consistente nello sparare alle spalle di soldati tedeschi o fascisti in divisa, prevalentemente in zone lontane dal fronte. Quando venivano catturati con le armi in pugno venivano fucilati sul posto.
Le perdite dei partigiani in termini di vite umane è stata di quasi 11.000 uomini.

La retorica sui partigiani
Sento dire dai politici rimasti ancorati all’ideologia comunista (ma anche Ciampi si esprime così) che non si possono mescolare indifferentemente i combattenti dell’una e dell’altra parte, nel senso che i partigiani erano dalla parte della ragione perché combattevano per la libertà.
Questo è totalmente immaginario (per i disinformati), oppure fazioso e retorico (per i consapevoli). La realtà è che i partigiani combattevano per ammazzare i fascisti e per fare la rivoluzione comunista.

I concetti di democrazia e libertà politica, non avevano cittadinanza tra i combattenti di allora, salvo che per una piccola minoranza evoluta, che non può essere rappresentativa.
(Partigiani Cattolici e del Partito d’Azione)
Per arrivare alla verità bisogna calarsi nella realtà di allora, e per chi non l’ha vissuta è difficile.
E’ difficile perché la storia, da che mondo è mondo, è raccontata dai vincitori, e quindi esposta in termini faziosi.

La realtà del 1944-1945 e oltreLe durezze della guerra avevano inasprito gli animi. Ammazzare gli avversari era un concetto normale. Aggiungi che l’ideologia comunista, di una eguaglianza tra le classi sociali, aveva conquistato comprensibilmente il cuore di molti operai e contadini.

Gran parte dei partigiani pensava che la lotta si sarebbe conclusa con la trasformazione dell’Italia in paese comunista. In questo senso sono continuate dopo la guerra le esecuzioni di ex-combattenti della RSI, ed anche di sacerdoti, che a quell’epoca venivano accomunati con i nemici del proletariato.
Peppone e Don Camillo sono parzialmente buona testimonianza dell’atmosfera del tempo, salvo che per gli omicidi che non ci potevano stare in un contesto satirico.

Infatti grandi quantità di armi nascoste sono state sequestrate dai carabinieri dopo trè anni dalla fine della guerra, dopo le elezioni del 18 aprile 1948. Depositi di armi denunciate dagli stessi leaders del PCI, preso atto che la rivoluzione non era più possibile.

I morti tra i combattenti della RSI sono stati in totale 50.000, di cui 20.000 nel dopoguerra per mano degli ex partigiani, dal 25 aprile 1945 in avanti.
Purtroppo gran parte di questi ventimila non erano i volontari delle Brigate Nere ma ragazzi di leva, colpevoli solamente di avere risposto alla chiamata alle armi.
E’ un quadro tragico che non ha niente a che vedere con gli ideali di libertà e democrazia.


CONSIDERAZIONI PERSONALI

Esperienze personaliIl giudizio su quello che è stata la guerra civile, cioè il reciproco massacro tra italiani, dal 1943 al 1945, più la coda a senso unico, fino al 1948, dipende da diversi fattori personali.
Incidono sicuramente le simpatie politiche di ciascuno, le quali sono peraltro maturate da esperienze personali, vissute o ereditate dalla famiglia. Gli schieramenti non nascono senza motivazioni. Resta il fatto che l’Italia è tuttora divisa in due.

Si tenga anche conto che all’epoca dei fatti la comunicazione era limitatissima. Durante la guerra, se rifletto sulla condizione del mio ambiente sociale (niente telefono e radio), mi rendo conto che si veniva a sapere solo quello che succedeva nel raggio di un chilometro, pur vivendo in una grande città.
Voglio raccontare le poche cose che ho sperimentato io dal vivo, cioè due episodi ed il racconto di un vicino di casa.

Un morto sul marciapiedi
Prima esperienza nei giorni immediatamente dopo il 25 aprile. Stavo andando a Messa e arrivato in Piazzale Lugano, dove inizia il Ponte della Ghisolfa, c’era sul marciapiede il corpo di un uomo morto (era il primo morto che vedevo in vita mia) con la testa in una pozza di sangue non ancora indurito. Era un uomo di mezza età vestito in borghese con abiti modesti. Lo avevano sicuramente prelevato di notte e ammazzato in un punto che fosse ben visibile.
La gente che passava come mè per andare a Messa sostava un attimo e poi proseguiva in silenzio. Si capiva che tutti erano impressionati, spaventati. Non osavano fare commenti di alcun tipo.

Simulazione agghiaccianteSeconda esperienza sempre negli stessi giorni, in via Bodio, strada di transito a pochi passi da casa mia, percorso quasi obbligatorio uscendo da via Cantoni.
Ricordo che da via Jenner giunse una moto-carrozzetta. Quei veicoli da trasporto merci a trè ruote tanto in uso allora. Alla guida un partigiano (dopo il 25 aprile erano tutti in abiti militari) e posteriormente nel cassone da trasporto merci, due partigiani in piedi. In mezzo a loro, seduta su una sedia con le mani legate dietro la schiena, una giovane ragazza, diciotto/vent’anni, capelli rapati a zero.
A metà di via Bodio il furgoncino è salito sul marciapiedi nello spartitraffico erboso di allora (adesso c’è una corsia riservata alla filovia 90 e 91). I due partigiani del cassone hanno fatto scendere la ragazza e l’hanno accostata ad un albero. Uno dei due ha piazzato una mitraglia a treppiede pochi metri davanti alla ragazza e si è sdraiato sull’erba in posizione di sparo. L’altro, evidentemente il comandante, ha letto una sentenza di morte. Una donna, da una finestra dal secondo, piano blaterava insulti contro la ragazza, chiaramente senza conoscerla.
La povera ragazza dava segni di svenimento.
Dopo aver letto la sentenza il comandante ha dato l’ordine “fuoco !!!”
Quello alla mitragia non ha sparato.
Hanno fatto risalire la ragazza sul furgoncino e sono ripartiti verso il Ponte della Ghisolfa. Evidentemente lo show continuava. Ognuno può immaginare il seguito come vuole.

Ritorno di un soldato di leva
Nall’abitazione adiacente alla nostra, al quarto piano di via Cantoni n°8, (due locali, cunt el cess in su la ringhera) è venuta ad abitare una giovano coppia di sposini. Luigi Baroni, e sua moglie Lina già in avanzato stato di gravidanza.
Luigi Baroni, classe 1925 (ora non c’è più), è stato chiamato alle armi nel 1944 (a 19 anni) dal governo della RSI. Tra l’alternativa di scappare, rischiando la pena di morte per diserzione (come d’uso a quell’epoca in tutte le nazioni in guerra) e quella di obbedire, lui scelse di obbedire alla chiamata.
Lui, prima di andare militare, lavorava alla Face Standard in via Bodio, dove in seguito ho lavorato anch’io.
Lo hanno mandato a combattere sull’Appennino Emiliano, sulla Linea Gotica, dove il fronte si è fermato negli ultimi sei mesi di guerra.
Il 25 aprile, non so attraverso quali vicende, è riuscito a ritornare a casa portandosi la Lina, che aveva conosciuto e sposato in zona di guerra.
La notte successiva sono andati a prelevarlo in casa i partigiani (qualcuno aveva fatto la spia) e l’hanno portato al loro comando.
Il comandante partigiano del gruppo quando lo ha visto e brevemente interrogato ha ordinato che venisse liberato immediatamente, gridando questa frase: basta con il sangue!!!
Frase molto significativa.
Quando poi Luigi Baroni si è presentato alla Face Standard per riprendere il lavoro gli è stato detto che non ne aveva più diritto. Ha trovato poi da lavorare altrove come fattorino.

La sorte di Luigi Baroni non è stata però delle peggiori. Diverse di migliaia di quei ragazzi sono entrati nella lista dei “desaparecidos” italiani, di cui la storia ufficiale della Nazione non ha mai parlato.

Glorificare e demonizzare
Glorificare tutti quelli che hanno combattuto per i vincitori e demonizzare tutti gli altri è un esercizio normale, sotto ogni latitudine. E’ però una normalità “a scadenza”.
Ad un certo punto la storia dovrebbe prevalere. E dovrebbe prevalere anche la pacificazione, cosa che non è avvenuta in Italia.



BOMBARDAMENTI SU MILANO

I cinque anni di guerra
Durante l’arco dei cinque anni di guerra ci sono state 60 incursioni aeree su Milano che hanno provocato circa duemila morti.
Quattro di questi bombardamenti, avvenuti in un periodo di nove notti dal 7 al 15 agosto 1943, hanno provocato più danni alla città di tutti i rimanenti bommbardamenti messi insieme.
Sono stati i bombardamenti più pesanti mai effettuate in Italia
Quindi probabilmente il colpo di grazia dato all’Italia, che trè settimane dopo,
l’ 8 settembre, annunciava l’armistizio con gli anglo-americani.
Nel 1943 i quadrimotori inglesi e americani (tutti ad elica a quel tempo) partivano dall’Inghilterra ed arrivavano su Milano sempre all’una di notte.
La durata dell’incursione, anch’essa costante, era di un’ora; il tempo necessario a far transitare centinaia di aerei, che viaggiavano a 450 km/ora ad altezze tra i 3mila ed i 6mila metri.

I bombardamenti di Agosto 1943Nel totale dei 4 bombardamenti di agosto 1943 sono transitati 916 bombardieri che hanno sganciato 2600 tonnellate di bombe.

Sulla base dei documenti consultati dall’autore del libro presso il Bomber Command
della RAF (Royal Air Force), risulta che l’intenzione degli anglo-americani era quella di provocare lo stesso effetto ottenuto su alcune città tedesche, totalmente distrutte dal fuoco.

Bombardando intensamente con bombe incendiarie i centri storici, ad alta concentrazione abitativa, avevano creato un “effetto camino” che attirando aria dalle zone limitrofe alimentava il fuoco incendiando tutto.

Questo effetto non si è ripetuto a Milano grazie alla diversa struttura degli edifici, che nei paesi mediterranei è di laterizi mentre nei paesi nordici è legno.

Nel secondo e più pesante dei quattro bombardamenti, con 504 aerei (notte 12-13 agosto), nonostante la grande quantità di incendi provocati dal lancio di 380.000 bombe incendiarie al fosforo, non si è determinato l’effetto camino sperato dagli anglo-americani, che avrebbe raso al suolo la città, come a Dresda.

I danni a MilanoDurante i 4 bombardamenti di agosto 1943 sono stati colpiti tra l’ altro il Duomo, la Scala, la Galleria, Palazzo Marino, il Castello Sforzesco, Sant’Ambrogio, Santa Maria delle Grazie(cenacolo di Leonardo), Accademia di Brera, una miriade di altri edifici storici, oltre a tutte la grandi fabbriche, la Stazione Centrale e tutti i grandi scali ferroviari.

La mia casa
Io speravo di individuare in quale di questi bombardamenti avevano incendiato la casa della mia famiglia, la mia casa, in via Cantoni al numer vot
Non ho trovato riferimenti sicuri.
Solo indicazioni probabilistiche.

Ritengo si sia trattato del terzo bombardamento avvenuto nella notte tra sabato 14 e domenica 15 agosto, in quanto è scritto che “a bombardamento avvenuto, la zona intorno allo Scalo Farini era semidistrutta”

Dalla mia casa, al quarto piano, in fondo alla ringhiera, vedevo tutto il grande Scalo Farini sottostante.
Il più grande dopo Lambrate.
Spazio enorme in un contesto cittadino, delimitato da grandi alberi di robinie, dal profumo intenso nelle fresche sere d’estate.
A destra la vista era limitata dal Ponte della Ghisolfa, a circa 500 metri.
A sinistra intravedevo appena la stazione Garibaldi, a 2 o 3 chilometri.
Di fronte, al di la dello scalo ferroviario, la zona cittadina di piazza Firenze, ad almeno un chilometro.

Per mè equivaleva al Golfo del Tigullio.



BOMBARDAMENTO DELLA SCUOLA DI GORLA
Scuola elementare bombardata il 20 ottobre del 1944, alle 11,30 del mattino.
La fatalità ha voluto che una bomba dirompente si infilasse nella tromba delle scale mentre le scolaresche (allarme in ritardo) stavano scendendo nel rifugio.
Duecento morti tra alunni ed insegnanti.
Il fronte era arrivato sull'Appennino emiliano ed i bombardieri partivano ora dall'Italia del sud.
I bombardamenti ora avvenivano di giorno in quanto non esistevano più difese contraeree nel nord Italia. (artiglieria e caccia)
Dalle relazioni del comando missione USA risulta che una squadra di 36 bombardieri aveva l'obiettivo di colpire la Breda di Sesto S.Giovanni, che produceva armi ed aerei.
La Breda aveva anche un campo volo, divenuto poi l'aeroporto di Bresso. La squadra di aerei, per inconvenienti tecnici, è andata fuori bersaglio.
In questo caso l'ordine era di scaricare ugualmente le bombe, come puntualmente avvenuto.
Le bombe hanno massacrato due quartieri, Gorla e Precotto, lungo l'asse di viale Monza.
614 morti in totale nei due quartieri.
Io ero tornato a Milano l'inverno precedente e, a 11 anni, leggevo i giornali.
L'evento è stato largamente divulgato dalla stampa, che accusava i "liberatori" di avere colpito volontariamente la scuola. La cosa faceva clamore. Mi pare che anche Radio Londra ne parlasse ma io non la sentivo. Pochi avevano la radio allora.
Sei mesi dopo la guerra è finita e la notorietà dell'accadimento è rimasta circoscritta alla zona.
Era un fatto sfavorevole alla parte vincente, sul quale era meglio glissare. A parti invertite, Gorla sarebbe diventata un luogo simbolo degli orrori nemici, tipo le Fosse Ardeatine.
La Renata ricorda che era nel rifugio antiaereo della scuola e ci fu un forte spostamento d'aria.
Non ha ricordi particolari da riferire se non il fatto che la cosa era molto nota.
Abbiamo invece ricordi comuni recenti, perchè il primo Parroco della nostra Parrocchia (eretta nel 1983), Don Walter Filippi (forse tu l'hai conosciuto), è uno dei quattro bambini rimasti sotto le macerie ma sopravissuti. Aveva nove anni. L'hanno tirato fuori dopo moltissime ore.
Era incastrato sotto una trave, abbracciato ad un suo amico che durante le ore è morto.
Lui aveva subito solo un danno ad una gamba ed ha zoppicato per il resto della sua vita.
Si sono accorti che lui era lì perchè nello scavare gli anno toccato una mano e lui ha mosso le dita.

Franco Valsecchi

L'amico Luigi Abordi aggiunge la sua testimonianza sul 25 aprile
I miei ricordi del 25 aprile sono rimasti anche se ero molto....piccolo. Abitavo con la mia famiglia a cento metri da piazzale Loreto percio' ricordo benissimo quel giorno: il 25 aprile 1945.Alla gioia che c'era nella gente adulta appena conosciuta la fine della guerra al mattino presto di quel 25 aprile nel cortile dove abitavo osservavo i grandi che parlavano sottovoce e con paura.
Sottovoce dicevano: il Duce con i suoi fedeli erano stati appesi morti al traliccio del distributore di benzina sull'angolo del corso Buenos Aires vicino al muretto dove l'anno prima in agosto furono uccisi 15 partigiani di Sesto. Il portone del cortile quel giorno rimase chiuso e sprangato. Sul portello fu'messo di guardia a turno un uomo della casa. (abitavo in una casa a cinque piani con un servizio in fondo alla ringhiera e la stufa a legna per riscaldarsi d'inverno, senza ascensore, ma c'era un cortile la sabbia per giocare e una fila di pioppi che in estate davano una bella ombra). Noi bambini quel giorno fummo impediti di uscire sulla strada ma sbirciando fuori dal portello si vedevano passare sul viale moltissime persone che urlavano e non si capiva se erano contente o erano cattive e inferocite. A me non fu' permesso di andare a vedere il Duce appeso in piazzale Loreto ma ascoltai con paura il racconto del mio papa' che ci era andato assieme agli altri uomini della casa.
Con la mamma ascoltammo in silenzio e con molta paura quello che quel giorno stava succedendo vicino alla nostra casa .
Nei giorni seguenti finalmente il portone della casa fu riaperto e noi bambini potevamo uscire liberamente sul marciapiede che allora era libero dalle auto che non esistevano.
In mezzo al viale c'erano due binari pieni di sassi dove passava il tram per Sesto e per Monza. In quei giorni i sassi del tram furono calpestati dai partigiani che scendevano tutti i giorni da Sesto in corteo con le armi in mano cantando e urlando, noi mentre li guardavamo avevamo molta paura. Davanti al corteo c'erano sempre delle donne che a piedi nudi con la testa rapata e vestite con uno spolverino che tenevano con le mani legato ma ogni tanto qualcuna non c'e' la faceva e cadeva per terra sui sassi e quelli la circondavano e la obbligavano con spinte del fucile o con calci a rialzarsi.
La donna che cadeva si vedeva che sotto era nuda ed era stata picchiata. Erano queste state le donne dei fascisti, cosi dicevano i grandi, e adesso si meritavano di essere giustiziate in piazzale Loreto anche loro. Cosa sia successo in piazzale Loreto a queste donne non lo posso sapere ma solo immaginare, nessuno di noi bambini non e' mai potuto accedere al seguito di questi cortei, i grandi dicevano che le facevano fuori. Qualche donna passo' davanti alla nostra casa anche lei rapata e vestita con lo spolverino grigio chiaro trasportata sopra un motocarro lei stava in piedi attorniata da uomini con le armi in mano e dietro seguivano in corteo i partigiani a piedi. Questa e' una pagina di storia che non ho piu'sentito descrivere da nessuno ma che penso sia bene sia dimenticata. Se prima e dopo gli uomini e le donne hanno sbagliato il Signore provvedera' con la sua grande misericordia a perdonare quelli che hanno fatto quello che non dovevano fare se si sono pentiti.
E noi non possiamo permetterci di dare giudizi e condannare nessuno.
Ricevo da Brunello Amici
Brunello mi manda, oltre a qualche suo commento, uno stralcio dal Sole24Ore di Domenica 24 Aprile u.s. con un articolo di Ermanno Olmi a commento del 60° anniversario della Liberazione.
Ad inviarmelo è la carissima Ilaria Amici, sua figlia.
E' un regalo graditissimo e centratissimo di cui ringrazio affettuosamente Ilaria.

Ermanno Olmi, mio amico d'infanzia, ha scritto un articolo che occupa mezza pagina del Sole24Ore, se si include una grande foto al centro.
Lo scritto collima perfettamente con la mia visione degli eventi del tempo. Potrei sottoscriverlo come lo avessi scritto io.
Un dettaglio:
sono citati i platani tagliati abusivamente di notte in via Bodio durante l'inverno 1943/44. Aggiungo che i ceppi stessi sono stati strappati alla terra le notti successive.
E, sempre della serie "riscaldarsi", ricordo che di notte c'era gente che scavalcava il muro di recinzione dello Scalo Farini per prendere carbone dai carri ferroviari parcheggiati.
Questo avveniva nonostante lo scalo fosse sorvegliato dai tedeschi.

Ermanno Olmi ha diviso quel periodo tra via Cantoni ed una località della bergamasca originaria della sua famiglia, dove era sfollato.
Lo dice anche nell'articolo dove parla della scuola dei Salesiani
dove faceva la 3a media (via Copernico) e di "piazzale Loreto dove andavo a prendere il tram per il paese dov'ero sfollato".
Era il tram interurbano predecessore della Linea 2 del Metrò.

Questa doppia residenza crea qualche confusione quando parla del mattino del 25 Aprile quando un suo amico dalla finestra gli gridò "è finita !" mentre lui correva perchè era in ritardo.
Questo avviene nel paese dov'era sfollato.
Lo dico in risposta ad una domanda di Brunello: eri tu quell'amico ?
Non potevo essere io. Non avveniva in via Cantoni
Oltretutto io non avevo la radio, come certamente aveva quel suo amico.

Poi Brunello commenta cosi la email di Pedro Fouz:
forte il Pedro ! Sembra la versione spagnola del Franco Valsecchi !
Effettivamente sento molte affinità con Pedro.
L'ho conosciuto nel settembre 1972. Mi invitò a casa sua a cena, la sera stessa del mio arrivo. E fu subito amicizia

Affettuosi saluti a tutti
Franco Valsecchi
DA BRUNO MARELLI A FRANCO VALSECCHI

Caro Franco,
i miei ricordi sono condizionati da un evento importante per me, ma sopratutto per la mia famiglia che in qualche misura segna una sorta di spartiacque tra due periodi: l'esodo da Pola avvenuto nel gennaio del 1947.
Questo evento è capitato mentre stavo frequentando la seconda elementare che infatti ho completato in provincia di Brescia. Poi dopo qualche mese ci siamo trasferiti a Venezia e poi a Mestre.
Dunque per ora ricordi di Pola. Innanzitutto ricordi di guerra e di bombardamenti. Pola era un importante centro strategico con un cantiere navale che è stato oggetto delle attenzioni sia degli alleati che dei tedeschi.
Fin dalla prima guerra mondiale gli austriaci avevano provveduto a scavare sotto la roccia degli ampli rifugi antiaerei che per noi sono stati una vera manna ai tempi dei bombardamenti massicci degli Alleati. Era sufficiente andare per tempo in rifugio per essere totalmente al sicuro.
Ricordo il rituale che si svolgeva prima di ogni attacco aereo: c'era un ricognitore che tutti chiamavano Pippo che precedeva di pochi minuti uno stormo di aerei che disegnavano in cielo delle strane figure. Erano indicazioni per individuare le zone da colpire.
Contestualmente (ma non sempre) scattava l'allarme antiaereo ed entrava in azione la contraerea di terra. Spesse volte però nelle giornate di vento gli obiettivi venivano spostati ed il bombardamento avveniva in zone non strategiche. Se quindi Pippo era seguito da questo rituale bisognava affrettarsi e correre in rifugio. Mi ricordo che al pari di tanti altri abbiamo lasciato la nostra casa e preso in affitto una stanzetta accanto ad una delle bocche dei rifugi per essere più presto al sicuro.
Passata l'ondata veniva dato il segnale di cessato pericolo e si poteva tornare a casa.
Spesse volte si trattava di ondate successive per cui bisognava dopo pochi minuti ritornare di corsa in rifugio. Ricordo il Natale del 1944 passato completamente in rifugio tra una serie di attacchi ravvicinati. Non sapendo tempi e luoghi del bombardamento bisognava essere preparati a permanenze anche piuttosto lunghe ed aver cura di avere con sè la borsa della spesa e qualche coperta in caso di pernottamento.
Ricordo distintamente l'atmosfera all'interno del rifugio che era costituito da un sentiero scavato nella roccia largo alcuni metri e con una panchina di sasso su cui ci si poteva sedere.
Nonostante avessimo trenta e più metri di roccia sopra la testa quando la bomba ci cadeva sopra tutto tremava per qualche istante e talvolta si intravedevano i bagliori dello scoppio in corrispondenza agli sfiatatoi necessari per far circolare l'aria. Gli sfiatatoi ovviamente non seguivano percorsi rettilinei per arrivare alla superficie.
Ricordo le persone che arrivavano in ritardo e trafelate con qualche notizia riguardo alla zona che il bombardamento aveva colpito. Si spargevano ovviamente le notizie più disparate: hanno centrato la tale strada, tutte le case sono venute giù e così via. Figuriamoci la preoccupazione ed anche la disperazione: non si vedeva l'ora di uscire per constatare i danni.
Ricordo che mio papà incallito fumatore si portava di tanto in tanto verso l'imbocco del rifugio per fumare una sigaretta (all'interno del rifugio non si poteva ovviamente fumare).
Ricordo la preoccupazione di mia madre che non lo voleva lasciar andare anche se il pericolo era molto limitato. Noi avevamo un cagnolino di razza volpina che ovviamente non potevamo portare con noi e che quindi rimaneva in casa (si chiamava Bianchino per il colore del pelo):
la volta che hanno centrato la nostra casa ma non in pieno per fortuna Bianchino è diventato sordo. Ricordo a questo proposito un episodio curioso: mia madre era riuscita a trovare della carne fresca e la cosa non era così banale. Mentre la stava preparando era squillato l'allarme e lei aveva lasciato il tutto sul lavandino ben fuori portata dal cane. Come abbia fatto non lo so perchè era di taglia piccola; sta di fatto che guidato dalla fame Bianchino era riuscito a salire in qualche modo sul lavandino e farsi una scorpacciata come non gli accadeva da chissà quanto tempo.
Al ritorno ricordo che mia mamma non sapeva se ridere o piangere, se accarezzarlo o usare la scopa. Tutto ciò è avvenuto dopo il settembre del 1943; se non ricordo male abbiamo avuto il primo bombardamento massiccio nel gennaio 1944 e la cosa si è protratta fino all'aprile del 1945.
Questo è un primo contributo: se i lettori saranno interessati potrei raccontare quello che è avvenuto nel periodo successivo.

Visto l'incoraggiamento dell'amico Franco continuo con qualche nota relativa al periodo aprile 1945-gennaio 1947 in cui si sono decisi i destini dell'Istria. Devo per forza ricordare un po' la storia del periodo e, per quanto mi riesce, cercherò a distanza di tanti anni di essere il più imparziale possibile. Sono peraltro molto contento se qualcuno troverà in queste poche righe qualcosa di inedito di cui non era a conoscenza. Devo infatti dire che a questo periodo ed a questa storia è stata messa la sordina per lunghi anni per una serie di ragioni che non commento.
Mi scuso quindi se privilegerò i fatti "ufficiali" rispetto ai ricordi personali.
La prima considerazione e non di scarso rilievo è che nell'ultima settimana di aprile 1945 mentre in Italia la guerra si concludeva rapidamente da noi cominciava forse il peggior periodo.
La strategia delle armate Jugoslave (uso il nome armate come da fonti ufficiali anche se in realtà si trattava di un esercito molto disomogeneo che si era ingrossato a dismisura dal febbraio 1945) era quella di precedere ovunque era possibile l'arrivo degli Alleati con lo scopo evidente di far prevalere in seguito la politica dello status quo di occupazione.
Mentre l'interno dell'Istria era in mano ai partigiani locali (non quindi all'esercito Jugoslavo) fin dal settembre 1943, la fascia costiera occidentale che collega Pola a Trieste e quella orientale che collega Pola a Fiume era difesa ad oltranza dai tedeschi nella regione che avevano battezzato Litorale Adriatico e che a tutti gli effetti faceva parte del Reich con scarsa o meglio nulla influenza della Repubblica di Salò. Il cedimento dei tedeschi era in atto da circa metà marzo 1945, ma di fatto l'offensiva della Quarta Armata Jugoslava venne lanciata il 17 aprile ed ottenne il risultato di occupare Trieste il primo maggio e Pola il 3 maggio (la resa definitiva dei tedeschi fu firmata il 6 maggio). La differenza essenziale è che a Trieste gli Alleati arrivarono subito (credo il 4 o 5 maggio) pretendendo il passaggio immediato di poteri mentre a Pola tale evento accadde solo il 12 giugno. Ci si trovava dunque in una situazione a partire circa dal 25 aprile in cui i collegamenti con Trieste erano stati tagliati, con gli Jugoslavi che assediavano Pola dall'entroterra (Dignano, Lisignano, Medolino) e con i tedeschi asserragliati da parte opposta della città con una particolare roccaforte in località Stoia. Cito questi nomi perchè forse qualcuno può ricordarli per avervi trascorso le vacanze estive molti anni dopo.

Cessati quindi i bombardamenti Alleati bisognava quindi fare i conti con una guerra cittadina in atto con tanto di cannonate che sorvolavano i nostri tetti e soprattutto con il timore che tutto potesse evolvere in una carneficina di civili. Per fortuna non è andata così perchè le difese tedesche erano ormai allo stremo e non c'è stata una battaglia casa per casa come poteva accadere. Di fatto comunque ci siamo trovati sotto l'amministrazione Jugoslava nel giro di pochi giorni. Tale amministrazione provvisoria si è protratta fino al 12 giugno per 45 giorni diventati famosi per la caccia a tutto quello che poteva essere o sembrare un vestigio di italianità.
Sicuramente è stato politicamente un grosso errore come riconosciuto dagli stessi Jugoslavi dopo parecchi anni, ma in qualche misura si è voluto in 45 giorni rifarsi di tutti i torti subiti dalle minoranze slovene e croate in più di vent'anni sotto il passato regime. Chiunque aveva avuto responsabità politiche e civili nel passato s'era messo al sicuro per tempo, per cui non restava che una popolazione a grande maggioranza di ceppo veneto su cui rivalersi.

Si è cominciato a prelevare dalle singole abitazioni i professionisti (medici, avvocati, professori) ed usando una brutta accezione allora di moda a "deportarli". In genere venivano avviati verso qualche isola dalmata (Cherso, Lussino, Veglia, Arbe o più giù vicino a Zara) e tenuti praticamente in stato di prigionia senza nessuna garanzia di diritti civili e legali. L'imputazione allora molto comune era di essere "nemici del popolo". Devo dire onestamente che parecchi hanno potuto far ritorno a casa dopo l'arrivo degli Alleati, non tutti però e comunque mai è stato possibile fare un censimento delle vittime.
E' chiaro che parlo di persone non impegnate con il regime se non forse per simpatia dell'unica forma di italianità che l'Istria ha potuto avere dopo la prima guerra mondiale. Mio padre, insegnante elementare molto conosciuto e ritengo benvoluto dalla grande maggioranza degli allievi non ha avuto alcuna noia, ma c'era la sensazione che fosse sufficiente una segnalazione dovuta ad una semplice antipatia personale per passare guai grossi.
Questo stato di cose ha persuaso la stragrande maggioranza di coloro che sarebbero diventati poi esuli a seguire questa strada.
Pola aveva allora 55 mila abitanti come detto a grande maggioranza di ceppo veneto: ebbene circa novanta su cento hanno deciso di non rimanere sotto l'amministrazione Jugoslava quando poco più di un anno dopo si è conosciuto il destino dell'Istria. Notare che parlo di una generazione che era nata e cresciuta sotto l'Austria e che a priori essendo legata alla propria terra avrebbe accettato di rimanere qualora fossero stati rispettati gli stessi diritti che l'Austria aveva garantito alle minoranze. Nei mesi successivi si comincia ad aver sentore di cedimenti da parte degli Alleati sul nucleo centrale del problema e cioè l'attribuzione dei territori giuliani nel trattato di pace (posizione rassicurante degli americani, molto più ambigua quella degli inglesi e dei francesi).

Si tratta di circa 10 mila Kmq che gli Alleati dovevano occupare integralmente ed al di sopra delle parti per consentire una equa spartizione in base alle caratteristiche etniche. Di fatto viene consentito all'esercito di Tito di rimanere in larghe parti dell'Istria interna ivi comprese alcune località della costa tipo Rovigno e Parenzo mettendo così dei presupposti importanti per il futuro. L'intera Istria viene percorsa da una commissione interalleata d'inchiesta che ha il compito di stabilire etnie e radici dei singoli territori.

Ciò si protrae per 28 giorni ed è datato marzo 1946. In realtà si ha l'impressione di una serie di azioni pro forma che avallino decisioni già meditate e probabilmente prese. Passa così buona parte del 1946 tra speranze sempre più esigue ed evidenze via via crescenti di una soluzione che non favorirà l'Italia. Il 29 luglio si apre a Parigi la conferenza per la pace ed il 10 agosto De Gasperi pronuncia il famoso e dignitosissimo discorso che cerca di perorare le residue speranze italiane, ma che fa capire in modo definitivo quanto siano poche ed affidate all'arbitrio altrui.
Per gli amanti della storia è quel discorso che comincia con le seguenti parole: "Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: e soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa considerare come imputato e l'essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione".

Ad agosto l'intera città partecipa ad una tragedia. Circa 80 persone muoiono e centinaia rimangono ferite per uno scoppio di parecchie mine lascite incustodite in uno stabilimento balneare e ritenute disinnescate. Il fatto avviene di domenica in località Vergarolla in concomitanza ad una manifestazione velica di stampo chiaramente italiano. Non è mai stata appurata la verità e quindi è rimasto il dubbio di un attentato anche se l'inchiesta ufficiale condotta dalle autorità Alleate non ha avallato questa ipotesi.

Finalmente le poche speranze cadono nell'ottobre del 1946 con la conclusione della conferenza di Parigi che assegna alla Jugoslavia circa 9300 Kmq dei 10000 in discussione lasciando all'Italia parte della città di Gorizia ed istituendo il cosiddetto Territorio Libero di Trieste. Con la certezza dell'assegnazione dell'intera Istria alla Jugoslavia che diventerà operativa nel settembre 1947, ma che di fatto è già in essere in buona parte dell'interno, scatta così l'operazione esodo: chiunque abbia possibilità concrete di appoggi in Italia (lavoro statale, parenti o altro) è orientato ad andarsene. Chi viceversa ha una casa di proprietà o qualche piccolo appezzamento di terreno è più incerto e non vuole staccarsi dai risparmi di una vita.

L'ideologia c'entra poco perchè i famosi 45 giorni hanno convinto tutti di non poter continuare a vivere dignitosamente, nè si pensa ad una normalizzazione che dovrà necessariamente avvenire, che viene ovviamente sbandierata dalla controparte, ma che riscuote poca credibilità. Tutto ciò lo ripeto riguarda la gente comune non compromessa in alcun modo con il regime fascista che ora deve scegliere nell'arco di pochi mesi. I miei godono di una condizione privilegiata non avendo beni immobili da difendere ed avendo mio padre un impiego che gli garantisce un posto di lavoro ovunque in Italia e quindi la scelta è scontata.
Lasciamo quindi Pola nel gennaio del 1947. La famiglia non è comuque compatta e ciò succede un po' per tutti: uno zio da parte di mio papà e due da parte di mia mamma decidono di restare proprio per le ragioni che accennavo prima mentre altre sei famiglie di parenti stretti decidono per l'Italia. Ricordo una serie di atteggiamenti ostili da parte della minoranza italiana che aveva sposato l'idea del comunismo e che non esitava a fischiare ed a tacciare di fascisti coloro che per lunghe ore sul molo centrale attendevano di imbarcarsi sul famoso "Toscana" (il nome della nave che ci portava a Trieste).

Tale fenomeno però si smorza da se stesso di fronte all'imponente fenomeno dell'esodo e gli stessi oppositori rimangono più attoniti che contrariati all'idea di una scelta di massa che di fatto li lascia soli senza più alcuna controparte. I problemi però non sono finiti perchè una strana legge stabilisce che chi ad una certa data (mi pare maggio 1940) risiedeva nei territori che verranno annessi alla Jugoslavia viene dichiarato cittadino jugoslavo. Per riconquistare la cittadinanza italiana bisognerà far scattare una opzione esplicita.

Ricordo le lungaggini, ricordo che mio padre non ebbe diritto di voto alle poltiche dell'aprile 1948, ricordo infine la ritorsione di essere considerati ospiti non graditi dall'amministrazione jugoslava per tutti coloro che avevano optato per l'Italia. Sono tornato a Pola nel settembre 1958 con una comitiva organizzata con passaporto collettivo per la durata di un paio di giorni. Finalmente nel 1962 ho potuto avere il visto che mi permetteva soggiorni individuali nella mia città. Non voglio trarre conclusioni da questo racconto, nè schierarmi nel dare giudizi storici. Solo qualche riflessione.

Anzitutto il silenzio che per decine d'anni è calato su questo fenomeno che ha coinvolto complessivamente 350000 persone. Voglio solamente dire citando Aldous Leonard Huxley che i fatti non cessano di esistere solo perchè vengono ignorati. La seconda e forse più amara riflessione rigurda il fatto di constatare che tornando a Pola non sono in grado di comunicare (altro che in inglese) con persone nate nella mia città e più giovani di 15-20 anni: io infatti non conosco il croato nè loro parlano l'italiano. Siamo quindi riusciti a spezzare una sorta di equilibrio etnico che durava da secoli nel rapido volgere di pochi decenni.

E' ovvio che mi chieda di chi sia la responsabilità, ma come non riesco ad attribuirla a me stesso o a coloro che hanno fatto la mia scelta non la posso certo imputare a coloro che abitano ora a Pola e con cui faccio fatica a comunicare.
------------------------------------------------------------------------------------------------